2068, L’UOMO CHE DISTRUSSE IL FUTURO

Le fiere del libro sono occasioni preziose per far conoscere la propria realtà editoriale e approfondire quella di tanti autori. Durante i tre giorni di Firenze Libro Aperto ho avuto modo di parlare con alcuni scrittori-colleghi di stand. Mi hanno colpito per la loro personalità e ovviamente per le loro fatiche letterarie. Ho deciso di dedicargli uno spazio sul blog per conoscerli ancora meglio e parlare dei loro libri. Il protagonista dell’intervista di oggi è Marco Mancinelli, autore “youcaniano” e vero funambolo dei generi: spazia dalla narrativa all’horror, dalla fantascienza al thriller e non disdegna le contaminazioni letterarie. Lo fa in modo del tutto naturale, con uno stile ben definito, dove niente è lasciato al caso. I suoi romanzi sono davvero coinvolgenti, ironici ed emozionanti, un po’ come questa chiacchierata.

Sulla tua biografia ho letto che spesso di notte sei fuori con il telescopio a guardare le stelle. Questo mi fa pensare a mondi lontani… e ai tuoi personaggi spesso collocati “ai margini” di qualcosa (società, relazioni interpersonali). Puoi parlarci del rapporto che intercorre tra i protagonisti outsider dei tuoi libri e le realtà, fisiche e non, con cui sono costretti prima o poi a interagire o che, al contrario, ritengono un loro habitat naturale. 

Se le guardi dalla Terra, le stelle sembrano tutte piuttosto vicine tra loro. Ti verrebbe quasi da pensare che si facciano compagnia, lassù, nel cielo buio e profondo. In realtà tra una stella e l’altra c’è così tanto spazio vuoto che per viaggiare tra le due più vicine non ti basterebbero dieci vite. I personaggi delle mie storie, come hai detto tu, sono spesso degli outsider, e come le stelle nell’universo vivono lontano dagli altri e, a volte, anche da loro stessi. Sinceramente non so perché mi vengano fuori così; forse sarà che non mi piacciono le persone convenzionali o, più probabilmente, mi spaventano. O forse perché una storia la racconti meglio se la osservi da lontano, con gli occhi del pazzo, prendendo bene le distanze.
Cyberblood e Nero Uomo hanno per protagonisti quattro personaggi che più borderline non potrebbero essere: un hacker riservato fino all’ossessione, un ex militare con un brutto carattere che affoga nell’alcol i propri demoni, una assassina sociopatica che vive senza freni morali e un perdigiorno cinico che lentamente scivola e si perde nel lato oscuro della vita. Insieme provano a rapportarsi con questa nostra società moderna, la affrontano e tentano di sopravvivere, un po’ come facciamo anche noialtri. Solo che lo fanno stando fuori dal cerchio civile. Riscrivono regole che poi non seguono, perché le infrangono quando ne hanno bisogno. Non accettano le convenzioni e non si fanno imbrigliare dalla quotidianità. Sono eroi reazionari di un mondo caotico, in un certo senso.
Il protagonista di In Equilibrio sul Silenzio è un quarantenne dal passato doloroso che vive tenendo lontane le emozioni. Costruisce per sé un mondo dove sentirsi protetto e al sicuro, un angolino riparato da dove osserva le vita che scorre via senza sorprese. E gli va bene così. Poi un giorno accade qualcosa che mette in discussione e sconvolge la sua stasi esistenziale. Da quel momento farà di tutto per tornare alla condizione precedente, ma per riuscirci dovrà aprirsi a quel mondo che per anni ha tenuto fuori dalla porta. Riscoprirà certe emozioni e, soprattutto, si troverà di nuovo in bilico sul filo della vita, come un funambolo, con la necessità di scegliere da quale parte andare, o cadere, perché per salvarsi a volte è necessario precipitare e rimanere senza respiro. In questo romanzo cito spesso un luogo, a Roma, che ho frequentato a lungo e dove ho avuto l’ispirazione per la storia: l’Angelo Mai Altrove, uno spazio occupato che vive di arte e idee, un posto dove puoi assistere ad uno spettacolo teatrale d’avanguardia, ascoltare un reading di alta letteratura o scolarti un paio di birre mentre ti godi il concerto di uno dei tuoi gruppi musicali preferiti. L’Angelo Mai è un posto, anzi un avamposto, di frontiera, perfetto per perdersi e allontanarsi dalla centrifuga impazzita della città, dai suoi doveri, dalle sue regole, dai suoi meccanismi implacabili. Le disavventure di Modesto, il protagonista del romanzo, iniziano lì, in uno dei luoghi in cui lui si sente più al sicuro. Adesso che ci penso, credo di avergli fatto una cattiveria immensa, in effetti.
E arriviamo ad Aaron Swenson, il protagonista del mio ultimo libro. Aaron è il figlio arrabbiato di una società corrotta e fallita. È un rivoluzionario senza ideali, una scheggia impazzita sfuggita al giogo del sistema. Come i protagonisti degli altri romanzi, anche lui ha un pessimo rapporto con il proprio mondo e il proprio tempo, a differenza degli altri però è l’unico che non può permettersi di prendere le distanze, a causa di una certa condizione in cui versa. È un outsider anche lui, ma è pericoloso, perché costretto a fare i conti con una società cui non sente di appartenere. Aaron è la bomba sul punto di esplodere che il Sistema tiene tra le braccia e culla come un neonato. Insomma, un bel casino davvero!

I tuoi autori di riferimento, uno scrittore che ami in maniera particolare.

 

Ho iniziato a leggere romanzi all’età di otto anni. Piano piano sono scivolato dai classici per ragazzi alla letteratura horror. A quindici anni avevo già letto tutto Poe e Lovecraft. In età adulta mi sono aperto anche ad altri generi, noir e fantascienza su tutti, e i miei autori di riferimento sono oggi tutti lì. Quando scrivo mi ispiro molto a King, Barker, Koontz, Dick e Lansdale per quanto concerne gli intrecci delle trame e la gestione dei personaggi. Per la tecnica narrativa, mi affido agli insegnamenti di Hemingway e Fitzgerald, anche se il mio faro nella notte rimane Amy Hempel, la regina del racconto minimalista. Come vedi, i miei autori di riferimento sono molti e spaziano nei generi. Forse è per questo che le mie storie vanno dal thriller alla narrativa, fino alla fantascienza, al mistery e al dark fantasy. Del resto, mi sono sempre considerato più uno storyteller (quando il termine ancora non era stato preso in ostaggio e stuprato dal marketing) che uno scrittore. Mi piace raccontare storie, fuori da ogni etichetta. Niente di più.

I personaggi secondari dei tuoi libri sono caratterizzati in maniera impeccabile, sembrano davvero persone in carne ed ossa e in più contengono elementi che sembrano essere usciti da film e fumetti. Quali sono le fonti da cui attingi per realizzare ritratti così veritieri e un tantino sopra le righe?

Come ti dicevo, ho sempre letto molto, fin da bambino. Romanzi e fumetti in testa. Però sono anche un amante del cinema e delle serie tv: insomma, dove c’è una buona storia, ci sono anche io. Quando scrivo un romanzo o un racconto, lascio che siano i protagonisti a narrare le vicende, io mi faccio da parte. Devi credermi: il più delle volte non ho neanche uno straccio di trama cui aggrapparmi. Spesso le mie storie nascono da un pensiero del tipo: «Sarebbe fico se ci fosse una donna un po’ matta che lavora per la criminalità organizzata e sa come muoversi in certi ambienti metropolitani…». Io mi limito a dare spazio ai personaggi, poi sono loro a suggerirmi quello che succede. Tuttalpiù io mi preoccupo di dare un senso e organizzare in maniera coerente le informazioni. Per realizzare questo piccolo miracolo, ho bisogno che i personaggi acquisiscano spessore, e che diventino reali. Allora mi concentro e mi focalizzo sulla loro psicologia, e tutto il grosso del mio lavoro sta lì. Io creo il genio della lampada, ma poi è lui che crea le meraviglie. Io devo solo dargli consistenza. Più riesco a farlo sembrare vero e a trascinarlo da questa parte della realtà, più la storia che racconta sarà convincente. Ma una buona storia ha bisogno di tante voci, così mi concentro anche sui personaggi secondari, affinché non siano costretti a gridare per farsi udire. Se non gridano, non c’è pericolo che stonino. È tutta una questione di armonia. Io osservo la realtà, la confronto con le tecniche dei grandi registi, dei grandi romanzieri e dei grandi sceneggiatori. I miei personaggi sono il risultato di questo attento lavoro di osservazione e costruzione. E questa rimane ancora oggi, per me, la parte più impegnativa nella stesura di un romanzo o di un racconto. Vorrei dirti che esiste una formula magica per creare buoni personaggi, ma non è così. Servono impegno e pazienza. C’è però un comune denominatore in tutti i miei personaggi, una caratteristica che li accomuna e che, credo, contribuisce a renderli veri: la fragilità. Io credo che gli esseri umani siano tutti fragili, anche quelli che si nascondono dietro la forza più ostentata. Abbiamo tutti un punto di rottura, uno spazio mentale e sentimentale oltre il quale ci infrangiamo e collassiamo su noi stessi. Io cerco di individuare quel punto in ogni personaggio e poi lo mostro al lettore, glielo do letteralmente in pasto. Nella miseria e nella sofferenza noi esseri umani ci riconosciamo tutti. E ci affezioniamo. Ecco, guarda, forse il trucco sta lì. Non è proprio una magia, ma è la cosa che più ci si avvicina.

Raccontaci di 2068. Com’è nata l’idea di scrivere questo romanzo?

2068 – L’uomo che distrusse il futuro è nato, prima di tutto, dalla mia grande passione per il genere cyberpunk. Nello specifico, era il dicembre del 2015. Un amico mi aveva chiesto di aiutarlo con l’editing di un saggio su 1984, di Orwell. La lettura di quel manoscritto ha messo in moto il mio cervello che ha iniziato a fantasticare di mondi lontani e società distopiche. In quel periodo ho recuperato tutti i classici del genere: Huxley, Dick, Orwell, Bradbury e molti altri. A febbraio avevo assimilato tante di quelle informazioni che ormai ero pronto per dare sfogo alla fantasia. Come al solito, sono partito dai personaggi. Aaron Swenson, il protagonista, è nato quasi per caso, mentre cercavo di fare ordine nella mia testa: un criminale che si rivolta contro il Governo e diventa la sua spina nel fianco. Semplice e chiaro. Poteva funzionare. L’idea era scrivere una storia che non fosse una brutta copia di 1984 o de Il mondo nuovo, e nemmeno una scopiazzatura di Neuromante, ma che utilizzasse le tematiche a loro care come trampolino per saltare oltre, verso un territorio ancora inesplorato. La difficoltà con questi classici è, dal punto di vista narrativo, lasciarsi ispirare senza farsi condizionare da cliché e topoi propri di queste monumentali opere letterarie. Orwell e gli altri maestri della fantascienza distopica e cyberpunk avevano osservato il loro presente e proiettato nel futuro i timori e le incertezze che esso suscitava. Io avrei fatto lo stesso, ma senza azzardare previsioni. Il mio presente, ho giudicato, era già abbastanza penoso, a livello sociale e politico. Non mi serviva altro. A volte vivere in un periodo di merda aiuta. Se non altro ti permette di scrivere una buona storia!
In breve, questa è la trama come si legge nel retro di copertina.
In un futuro non troppo lontano, gli Stati Nazionali hanno perso la loro indipendenza e l’Europa è unita sotto un unico governo centrale. Il divario tra le classi sociali è divenuto incolmabile, e le città sono divise in Settori, ognuno abitato da una differente casta di cittadini. La tecnologia è tutta in mano al Governo Unico, che la gestisce con l’aiuto delle multinazionali e la complicità delle tre associazioni criminali principali. Il tessuto sociale si regge su tre regole semplici: produci, consuma, muori. Aaron Swenson è un criminale che sta scontando una condanna in uno dei settori periferici della città, ed è l’unico che sa come interagire con la Rete, la tecnologia che gestisce l’organizzazione della popolazione. Ci riesce grazie ad un impianto bionico difettoso e un socio zelante che non esiste. Per smascherare l’inganno del Governo Unico dovrà mettersi contro tutti e scendere a compromessi con le persone più pericolose del pianeta. Aaron ha un’unica regola: tutto ciò che non riuscirà a cambiare, lo distruggerà.
Vorrei concludere con una particolarità del romanzo. Ho scelto una narrazione in prima persona, al tempo presente (non sapevo come complicarmi la vita!). Poi, ogni protagonista ha bisogno della sua nemesi, di un antagonista di spessore. Quello di Swenson si chiama Keenan, ed è un poliziotto, un uomo del Governo. Così l’io narrante oscilla dalle disavventure underground di Aaron e i suoi compari ai resoconti di indagine del capo della polizia cittadina, tra rapporti ufficiali e piccoli disagi esistenziali. Ho cercato di restituire al lettore tutte le informazioni di cui può aver bisogno per immergersi nella trama, e anche per scegliere da che parte stare. Spero tanto di esserci riuscito.

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Il suo sito: www.cyberblood.it

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