La Sarabanda Postcomunista di Irida Gjergji

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La Sarabanda Postcomunista di Irida Gjergji

Sabato, ultimo giorno di settembre. L’autunno avanza cauto tra le vie del Pigneto, si sta ancora bene all’aperto ma questa sera la passerò all’interno di in un giovane locale, il Club55. Mia sorella mi ha detto che c’è uno spettacolo da non perdere; io le ho dato retta, perché non sono mai rimasto deluso dai suoi suggerimenti. Per il primo compleanno del Club, va in scena Sarabanda Postcomunista di Irida Gjergji, L’attrice e musicista albanese propone uno spettacolo in cui teatro e musica si combinano dando vita alla storia di Nina, musicista professionista (come ripete più volte), che viene dall’Albania. Nina ci parla della sua infanzia, della sua terra, del suo sogno che la porterà dall’altra parte dell’Adriatico. Poche centinaia di chilometri verso quell’Ovest che, dopo la caduta del muro, si era fatto improvvisamente più vicino. Il racconto continua in Italia attraverso la burocrazia, le mille contraddizioni e i pregiudizi, osservati dal punto di vista dell’emigrante, senza tralasciare il rapporto con la propria terra d’origine e la propria famiglia che si fa via via più complesso. Il monologo è intenso e profondo ma scorre anche leggero, ironico e divertente. Il pubblico segue interessato e divertito. Non può essere altrimenti, Irida racconta in maniera coinvolgente, strappa risate, fa commuovere e scoprire a tutti noi il suono della sua terra natia, attraverso bellissime canzoni del folklore albanese. Quando lo spettacolo si conclude, un’oretta più tardi, mi rendo conto che il tempo è volato, vorrei che la storia continuasse, vorrei ascoltare altri brani e, guardandomi intorno, mi accorgo che non sono l’unico a sperarlo. Gli applausi risuonano nel locale in via Perugia e penso che, anche questa volta, mia sorella ha avuto ragione.  Nei giorni successivi ho sentito che avrei voluto sapere qualcosa in più su Sarabanda Postcomunista. Così, ho cercato Irida e le fatto qualche domanda….

Com’ è nata l’idea di questo spettacolo?

Avevo scritto da poco un testo, un’autobiografia traslata sul tema delle radici. Sentivo l’urgenza e la necessità come artista, di qualcosa che mi desse un vero motivo per andare in scena. Un tema caldo per me.   Ma non volevo rinunciare alla musica e immaginavo di comporre lo spettacolo di brani, suoni e ritmi della tradizione popolare albanese. Per questo ho proposto la collaborazione ai musicisti che insieme a me formano Hora Quartet. Andrea di Giampietro al pianoforte, Emanuele Di Teodoro al contrabbasso e Walter Caratelli alle percussioni. Ho fatto leggere a loro il testo e insieme abbiamo deciso di unire le nostri doti musicali e autoriali per portare alla luce Sarabanda Postcomunista. Sia l’arrangiamento di alcuni brani popolari albanesi, sia le composizioni di brani originali, plasmavano o fluivano con le atmosfere del testo in linea comunicativa diretta e immediata. Il testo si è avvalso della consulenza drammaturgica di Andrea Cosentino, uno dei più noti attori e autori della scena teatrale contemporanea, di cui non potrei mai dimenticare i consigli sul senso dello stare in scena, reinventandolo ogni volta con giocosità. Senza tralasciare i “Consigli jazz”. 

Quanto c’è della tua vita nella storia che racconti?

Gioco con la verità e la finzione. Come diceva Colin, nella Schiuma dei giorni di Boris Vian; ‘La storia è interamente vera, perché io me la sono inventata da capo ai piedi’.  Non bisogna mai dimenticare una legge fondamentale nell’arte, e cioè di rendere visibile l’invisibile. Detto ciò, gran parte di quello che dico è vero.

Il tuo racconto mi ha ricordato, per certi versi, la storia di Marjane Satrapi nel fumetto (poi diventato film) Persepolis. Due storie diverse, raccontate attraverso immagini l’una e teatro e musica l’altra, ma accomunate da intensità e ironia. Ti sembra un paragone azzeccato?

Ho amato quel film, soprattutto la scena dove una volta emigrata dall’Iran, Marjane si impegna a scoprire questo nuovo mondo con cui confrontarsi; forse più facile ma contrapposto e incomprensibile, , un universo anch’esso coi propri limiti e le proprie contraddizioni.

Viola, pianoforte e percussioni ti accompagnano nel racconto e nelle splendide canzoni in albanese (gjuha Shqipe). Come hai scelto questi brani e cosa rappresentano per te e per chi come te, vive lontano dalla propria terra natale?

Sento che non sono poi così lontana quando ho nelle dita quelle sonorità, nel piede quel ritmo, nella voce quella parola per dire cuore: ‘zemra’ . Le ho scelte in base alla loro elasticità ad essere riarrangiate, ma anche in base ai contenuti dei testi. Nonostante la lingua non sia comprensibile a molti, credo che arrivi con la stessa forza.

Nello spettacolo affronti con una pungente ironia e un grande sorriso, gli stereotipi e il razzismo con cui tutti gli stranieri devono fare i conti ogni giorno. Se negli anni 90 al centro dell’attenzione c’erano gli albanesi, nel primo decennio del 2000 i rumeni, adesso tocca ad africani e mediorientali essere  considerati (secondo alcuni) la causa dei problemi italiani. Il tuo spettacolo può essere considerato una forma di resistenza al razzismo dilagante?

Io immagino un’altra forma di resistenza; immagino che arriverà molto presto il giorno in cui anche questi ragazzi, che ieri arrivavano dall’Albania e oggi dall’Africa e dal Medioriente, potranno parlare attraverso l’arte del loro percorso migratorio, contribuendo ad arricchire e “meticciare” la società come Sarabanda Postcomunista mi auguro stia facendo.

In Sarabanda Postcomunista narri anche il passaggio del tuo Paese dal regime comunista al capitalismo. Come hai vissuto questo cambiamento com’è cambiato il tuo rapporto con l’Albania da quando vivi all’estero?

Mia madre racconta spesso un aneddoto successo durante gli ultimi anni del regime. Si trovava dal  fruttivendolo, negli scaffali c’erano solo dei fichi secchi. Domandò preoccupata alla commessa, che cosa poteva inventare con i fichi secchi per sfamare due bambini piccoli. Fu mandata al ‘Consiglio del Quartiere’, rischiava una condanna per agitazione e propaganda, erano otto anni di carcere.  Lei si giustificò dicendo che chiedeva alla compagna solo una ricetta con i buonissimi fichi in vendita. Fu liberata, ma solo perché intervenne qualcuno. Dopo la dittatura le è rimasto questo bisogno di riempire le dispense fino all’eccesso. Io mi ricordo l’abbondanza, in contrasto assoluto con i primi sei anni di vita. Poi quando gli unici valori sono diventati quelli dei soldi e del consumismo feroce, la storia è cambiata, gli albanesi sono cambiati. Mia madre nell’angoscia del troppo aveva nostalgia del poco, ma non ha mai più voluto i fichi secchi.

Nina, nello spettacolo, racconta di un faro che scompare all’orizzonte, e del nero che l’accompagna quando torna in Italia. Che significato hanno queste immagini e qual è il tuo rapporto con questo mare che ti separa dalla tua terra natale? 

Il mare da quest’altra sponda è un po’ come stare lontano da quello che sento molto vicino. Ma paradossalmente quando lo vedo dalla mia città, Durazzo, è come stare vicino a qualcosa che ormai è lontano. Intravedo sempre il futuro, il biglietto di ritorno, gli addii.  Il nero invece è l’ignoto che temo, il mistero, il dubbio se io stia facendo bene.

Dove potremo vederti suonare prossimamente? Quali sono i tuoi progetti futuri?

A Roma torniamo sempre molto volentieri.  Saremo al teatro di Tor Bella Monaca per la stagione 2017/2018. Stiamo promuovendo lo spettacolo anche grazie alla collaborazione con il Florian  Meta Teatro. Vogliamo far girare questo spettacolo il più possibile per dare un senso a tutti i sacrifici fatti da me e dai miei compagni ma anche perché ci piace moltissimo.

Daniele Forcella

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