Come sempre quando Guillermo Del Toro non dirige in prima persona un film da lui scritto, sembra ci tenga a declinare il proprio immaginario in modi espliciti, quasi didascalici, a ridurli a un minimo comune denominatore facile anche per il pubblico estraneo al suo cinema: è stato così per Non avere paura del buio (Troy Nixey, 2010) e in parte per la serie The Strain (2014). È così anche per Scary Stories to Tell in the Dark, tratto dai racconti horror per ragazzi di Alvin Schwartz[1] e diretto da Andre Øvredal, norvegese scoperto e apprezzato da Del Toro per Troll Hunter (2010, antecedente alla bella serie animata creata da Del Toro per Netflix) e Autopsy (2014).
Un horror quindi esplicitamente per ragazzini e con ragazzini, ambientato durante la notte di Halloween del 1968 e in cui al centro c’è l’importanza delle storie: “le storie feriscono, le storie salvano” dice la voce over a inizio film che, in modo del tutto deltoresco, viene ripetuta e contestualizzata in prossimità del finale. Qui il messicano, autore del soggetto e produttore, sembra quasi volersi confrontare con Stephen King, ma il suo approccio è più concreto, meno meta-linguistico: non parla di letteratura come il maestro americano, ma di un libro specifico e dell’importanza che ogni storia ha per chi la ascolta, tematizzando in modo esplicito la questione attraverso il libro che si scrive da solo (l’opera senza autore, sogno postmoderno, al contrario di King che racconta dell’autore senza o contro l’opera: Misery, per esempio) e non facendo dell’adolescenza un modo per raccontare l’orrore adulto, ma trovando il proprio preciso target di riferimento.
La carriera di Del Toro è cominciata con le storie dell’orrore, raccontategli dallo zio o lette di nascosto dalla nonna, e Scary Stories to Tell in the Dark è un omaggio a quegli inizi, ai ragazzini che entrano nelle case infestate e cercano reperti minacciosi finendo per liberare (nella loro mente o nella realtà: c’è differenza?): i cliché del racconto fanno parte del gioco, fanno parte di quell’omaggio, inutile lamentarsene. Più interessante allora notare come l’influenza del messicano passi dalla scrittura alla visione di Øvredal, tramite per esempio i colori e le luci della fotografia di Roman Osin, i toni freddi con cui riprendere la casa gotica e diroccata di Sarah Bellows – l’autrice delle storie da cui il film muove – oppure alcuni accenni a temi cari al nostro, come nell’inquietante parto al contrario con cui la Signora Pallida (Pale Lady, come Pale era anche il celeberrimo mostro di Il labirinto del fauno) divora chi le sta di fronte.
In un film che punta solo (si fa per dire) a fare il suo lavoro di spaventoso intrattenimento per ragazzi, facendolo abbastanza bene e migliorando con i minuti, va fatto notare come la scelta del regista norvegese sia stata azzeccata: la sequenza dei corridoi rossi, in cui la suspense è frutto solo di stacchi di montaggi e impossibili controcampi, è una buona invenzione visiva e l’uso degli effetti speciali (l’Uomo tintinnante, Jangly Man, “interpretato” da Doug Jones) è più intelligente e adeguato del baraccone tirato su in occasione di It – Capitolo Secondo, per restare a King.
Scary Stories to Tell in the Dark riconnette Del Toro e il suo universo con il pubblico giovane che, come regista cinematografico, sta cercando di ampliare grazie a progetti sempre più ambiziosi (Nightmare Alley, oltre a Pinocchio) ma da cui non può prescindere: perché sono la scintilla da cui tutto è partito, perché sono l’ispirazione che ne anima le gesta.
Emanuele Rauco
[1] pubblicati quest’anno da De Agostini