Durante il laboratorio del 25 gennaio abbiamo parlato di personaggi e dialoghi, confezionando con le parole dei veri e propri abiti. Siamo partiti dall’analisi e dalla creazione di brani letterari ricchi di dettagli fisici; in un secondo momento, abbiamo tolto le descrizioni per permettere al linguaggio parlato di emergere e raccontare una storia attraverso l’uso dei dialoghi.
Per mettere alla prova la fantasia dei ragazzi abbiamo immaginato uno scenario unico, una porzione di quartiere, dove ognuno “ha calato” il proprio personaggio. Nella seconda parte dell’esercizio, la strada si è animata ancora di più: i personaggi sono usciti dalla loro bolla e hanno interagito tra loro, creando situazioni “reali” grazie a dialoghi verosimili. Qui di seguito potrete leggere i racconti che abbiamo raccolto alla fine del workshop. Vi ricordiamo che il prossimo appuntamento sarà sabato 14 marzo, sempre presso gli spazi di Kalipé, in via Taranto 96e, Roma.
Potete iscrivervi inviando una email a : info@bakemonolab.com
Il vigile di Simone Fiocco
Marco compilava il verbale con la solita magistrale interpretazione del vigile che non poteva fare altrimenti di fronte a un’infrazione. In realtà godeva segretamente nel punire il prossimo, godeva nell’esercitare un potere che lo inebriava e che gli restituiva un senso, come una sorta di vendetta nei confronti della vita. A volte si appartava dietro edicole o cabine telefoniche in attesa del malcapitato da punire e appena scopriva una violazione scattava come un centometrista. Quella volta aveva beccato una madre parcheggiata in doppia fila con la sua smart.
“Sono scesa soltanto due minuti per prendere una cosa al mercato…” provò a difendersi quella.
“Due minuti o due ore, la legge è legge, signora> rispose impassibile. Strappò la sentenza con estremo appagamento e tornò in agguato.
Quasi distrattamente vide quel vecchiaccio deambulare sul marciapiede; camminava incespicando di albero in albero, come se stesse ancora portando a spasso il sacco di pulci che gli aveva pisciato sulla divisa come a volersi beffare di lui e del ruolo che rappresentava. Se l’era legata al dito ma non poteva multare una bestia e così da quella volta si era messo a seguire il vecchietto aspettando un’infrazione, assaporando una dolce vendetta.
“Buongiorno signor Gebedia” disse il vigile alle spalle del vecchio.
“Che diavolo!” esclamò quello sorpreso dall’agguato. “Ancora lei?”
“Favorisca i documenti per cortesia.”
“Non sono cambiati da due giorni fa.”
“Lo lasci giudicare a me se permette.”
Gebedia consegnò il portafoglio al vigile che con un entusiasmo incontenibile disse “La sua patente è scaduta.”
“La patente? Ma non guido da anni e poi mica sono al volante!”
“È pur sempre un documento non valido…”
“Se la può tenere allora.”
“Non posso tenerla, ci sono delle procedure e chi mi assicura che lei nel tempo libero non si diverte a guidare?”
“Senti ragazzo, se ti rode tanto trovati un altro osso da rosicchiare” disse Gebedia mentre una ragazza gli si avvicinò con un bastone in mano.
“Cos’è? Un’intimidazione per caso?”
Gebedia prese il bastone e col volto paonazzo disse “Avevi ragione Claretta, mi serviva proprio un bel bastone.”
Amalia di Eleonora Muscio
Seduta al tavolino del suo bar di fiducia, Amalia accarezzava distratta il manico della tazzina del suo caffè, ormai freddo. L’ombra di un sorriso le piegò le sottili labbra, ricoperte da un lieve strato di rossetto color carne. Gli occhi, scuri e cerchiati da occhiaie, si fecero trasognati.
“È quasi mezzogiorno , non dovresti bere caffè adesso!”le avrebbe detto sua madre, magari già alle prese con l’ipercalorico pranzo che di lì a poco avrebbe messo in tavola. Poteva quasi sentire il borbottio del sugo sul fuoco, l’odore dei peperoni che sfrigolavano in padella, l’immancabile coperchio che sarebbe caduto con un risonante tonfo in terra, facendo scappare a coda dritta il più curioso dei tre gatti di casa -sempre zelante nel fare da guardia ai fornelli.
Il sorriso si ampliò, divenne quasi una risata, per poi interrompersi di scatto al primo sguardo interrogativo di un altro avventore del bar.
La madre, del resto, si trovava a chilometri di distanza, e lei doveva ricordarsi di trovarsi in un luogo pubblico. Più precisamente, su una strada che sapeva essere alquanto trafficata poco prima di mezzogiorno. Odori e familiari rumori svanirono, per lasciare spazio al caos urbano che era divenuto ormai la sua routine, così come parte delle sue nuove abitudini era divenuto quel rito al sapore di caffeina che ormai non aveva più un orario ben specificato.
Amalia aveva avuto la sua levataccia alle sei di mattina per essere in facoltà alle otto. Era terribilmente lenta a prepararsi, ed onde evitare inutili discussioni con le sue due coinquiline sacrificava, ogni mattina, preziosi minuti di sonno per il bene comune.
Tre ore di anatomia dopo, aveva deciso dunque che fosse tempo di concedersi il suo quinto caffè della mattinata. “E crepi l’avarizia!” aveva pensato una volta fuori dall’opprimente fermata della metro. Un euro per salvare il suo stomaco dalla brodaglia marrone della sua scadente macchinetta sarebbe stato sicuramente un ottimo investimento. Ci teneva alla sua salute.
Il problema di Amalia, però, era che la sua mente partiva sempre per la tangente ogni qualvolta si ritrovasse ad uno di quei tavolini all’aperto, da sola. Un caffè non era mai solo un caffè, perché la si poteva chiaramente vedere alienarsi dal mondo reale ed iniziare a perdersi nelle altre persone.
Eccola ad osservare,cercando comunque di non apparire troppo insistente, gli abitanti del suo quartiere adottivo. Erano anziani, per lo più, e senza ombra di dubbio abitudinari. C’era la vecchietta che, sempre vestita di tutto punto nei toni del lilla, andava al piccolo negozio di alimentari del suo palazzo e comprava un articolo per volta. Se proprio si trattava di un giorno particolare, prendeva addirittura una busta e tre articoli, né più, né meno. C’era ora un tizio vestito di tutto punto, forse sulla cinquantina, che comprava dei fiori al chioschetto del fioraio all’incrocio -un luogo che Amalia, dato il suo pollice nero, mai aveva ancora sperimentato. E poi il barbone all’angolo del marciapiedi, con il suo povero cane steso al suo fianco, ai quali dopo avrebbe lasciato una moneta, ed infine la cameriera che portava, ancheggiando con fare sicuro, un vassoio di caffè e toast al negozio vicino.
Una folata di vento le smosse i pochi capelli castani sfuggiti alla sua coda disordinata, e lei si strinse un po’ di più nel suo maglione verde slavato – maledetta lavatrice preistorica!–
Solo allora si ricordò di bere quel caffè. Era gelido. Terribile.
Forse, sarebbe stato meglio tirar fuori dallo zaino il mattone di anatomia ed ordinarne un altro. La cameriera le si avvicinò sorridente e prese l’ordine con la promessa di essere subito da lei.
Amalia non aveva pretese – d’altronde, senza nessuno ad attenderla a casa, poteva trattenersi quanto voleva – ma avrebbe ben volentieri cancellato il prima possibile lo sgradevole sapore di caffeina fredda. Aveva regole ferree a riguardo: pura, amara, bollente.
Il vento girò qualche pesante pagina del libro, fermandosi su un argomento che aveva con estremo sollievo già archiviato, e nel mentre quasi con violenza prese a sfogliarlo alla ricerca dei capitoli che le interessavano, si avvide di una mano aggrappata allo schienale della vuota sedia che aveva di fronte. I piedi di quella grattarono rumorosamente sul marciapiedi, facendo sobbalzare sia lei che il curioso avventore che pochi attimi prima aveva interrotto le sue succulente fantasie. «Signor Gebedia, tutto bene?» Il suo tono allarmato dovette infastidire l’anziano signore, che grugnì qualcosa come «’Sta gamba maledetta!» a fior di labbra e scacciò con fare sdegnato il braccio che Amalia, ormai in piedi al suo fianco, gli stava porgendo.
Ah, il signor Gebedia… Lui si che era uno spasso. Abitava al piano inferiore dell’appartamento in affitto di Amalia e le altre due sue “amiche”, e trovava ogni pretesto per contestare al condominio la loro presenza. «Le signorine, qui, fanno sempre caciara!» aveva esordito un giorno, sulla prima rampa di scale, rivolto al portinaio, mentre le tre fuorisede si trascinavano le buste della spesa «Ieri sera, co’ quella televisione, manco la Roma m’hanno fatto vedè in santa pace!» Chiaramente, la sera prima la Roma aveva perso, ed era molto plausibile che Gebedia fosse in collera per la sconfitta, piuttosto che per il film a volume leggermente alto che le ragazze avevano guardato.
Le sue coinquiline avevano ridacchiato e scrollato le spalle con disinteresse, mentre Amalia aveva tentato di scusarsi. Inutilmente, sia chiaro. L’anziano non ascoltava granché.
Gebedia alzò gli occhi sulla ragazza che voleva prestargli aiuto ed il viso, se possibile, gli si adombrò anche di più. «Ah, tu sei! La calabrese…» Amalia roteò gli occhi al cielo, emettendo un sonoro sbuffo «Lucana, in realtà. » Si trattava forse della cinquantesima volta che lo specificava al caro condomino, ma niente. In quella testa caparbia proprio non voleva entrargli, quell’informazione, o – molto probabilmente – era lui ad incaponirsi nell’infastidirla con quell’errore comune. «E che differenza fa, più o meno stiamo là signorì!» Alzò platealmente il braccio ad indicare un là generico, prima che i suoi vecchi occhi si posassero sul libro che ormai, quasi per conto suo, continuava a sfogliarsi spronato dal venticello. «Qua si studia, eh? E poi la sera… » La mano che ancora era poggiata alla sedia si sollevò a cappello, ed accompagnata dall’altra, creò una coreografia che ricordava vagamente le movenze di una tarantella. Se solo le sue gambe si fossero mosse in modo agile, pensò Amalia, sarebbe stato un provetto, comico ballerino.
Fu in quel momento che la cameriera depositò la tazzina fumante sul tavolo, con un sorriso che si era fatto interrogativo a quella vista. Amalia cercò di ringraziarla, ma la voce gracchiante di Gebedia la sovrastò «Ahè, portajene pure n’artro! Così stanotte è festa! È vero, ah?» Ora si era voltato verso di lei, un sorriso sdentato che però tradiva l’evidente fastidio che la ragazza poteva leggergli negli occhi. Chissà cosa era stato, in un passato remoto o prossimo, a renderlo così intransigente. Certo, lei e le sue coinquiline non erano delle sante, ed ogni tanto era vero che si dessero da fare – da brave fuorisede – con festicciole o visioni di programmi e film fino a tarda notte. Ma Gebedia era l’unico del palazzo a lamentarsene, e le sue lagne in tutta onestà lasciavano il tempo che trovavano. «Non le daremo nessun fastidio, siamo tutte sotto esame. Questa sera a letto presto…Il derby potrà vederlo in santa pace!» Voleva sdrammatizzare, Amalia, senza risultare sgradevole o maleducata. Ma non sapeva mai davvero come comportarsi dinanzi a quel burbero, buffo signore. Si, buffo, perché in fondo si percepiva che Gebedia non fosse realmente cattivo. Solo che non lasciava granché spazio al dialogo, ecco.
Al sentir menzionata la parola derby, l’anziano si aggrappò di nuovo alla sedia, stringendola con forza. «La partita? E chi l’ha nominata, la partita? Io ho da riposà! So vecchio! Voi giovani… ma che ne potete capire!» E nel frattempo disegnava chiaramente un paio di corna rivolte in basso sullo schienale su cui si poggiava, un gesto partenopeo che non si aspettava affatto da lui.
Amalia sorrise,tentando di essere rassicurante e credibile. «Allora la faremo riposare. Le avviso io Paola e Cristina. Glielo giuro.»
«Giura, giura…Che è peccato! A me non me prendi in giro, signorì! Pure io da giovane ne ho fatte, ma i vecchi li rispettavo! Ieri era mezzanotte. Mezzanotte!» e prese a blaterare mentre scuoteva il capo. Era una sorta di lamento, accompagnato dal lento movimento della gamba destra, seguito poco dopo dalla sinistra. Evidentemente, per Gebedia la conversazione terminava lì. «Se non posso giurare, almeno glielo prometto. Ieri sera è stata l’ultima volta con quel volume alto!»
L’anziano le dava quasi le spalle, ormai, e di nuovo con un eloquente gesto della mano la liquidò, continuando il suo cupo borbottio di parole mentre si apprestava a raggiungere il semaforo.
Amalia continuò a fissarlo per un po’, senza riuscire a provare fastidio per quel vecchietto scorbutico.
“Mi ricorda il nonno” pensò d’un tratto, mentre il viso di Gebedia, nella sua mente,prendeva sembianze da lei mai dimenticate, e quel corpo arrancante si deformava in un omone alto, dai capelli candidi come la neve.
Tornò distrattamente a sedersi, il libro ormai dimenticato. Il caffè era di nuovo freddo.
Pinuccia di Valeria Terenzi
Da quando era caduta, per colpa di quel gattaccio che aveva il brutto vizio di camminarle tra i piedi, Pinuccia era ormai relegata in casa. La sua vita scorreva monotona. Un riposino sul letto, una minestrina calda mangiata nella piccola cucina, un programma di dubbia intelligenza alla televisione. Tutti però continuavano a ripeterle che non doveva lamentarsi perché in fondo che altro avrebbe potuto fare alla sua età? Sembrava che ci fosse un percorso di vita standard. Del tipo “ecco da oggi sei considerato ufficialmente anziano e da questo momento la tua vita sarà questa”. Pinuccia però non era d’accordo. Lo avrebbe dimostrato volentieri a tutti se non avesse avuto tutte quelle difficoltà e quei dolori nel muoversi. Se provava a fare di più, ecco che arrivava il dolore, così forte ma fortunatamente passeggero. A volte si augurava di fare ben presto la fine del suo gatto, che aveva terminato tutte e sette le sue vite ed ora riposava in pace da qualche parte. Come se la sua esistenza non fosse già abbastanza miserabile, ad aggravare ulteriormente la situazione c’era quell’insopportabile donna che le sue figlie le avevano infilato per forza dentro casa. Le stava antipatica, non poteva farci niente, e spesso non la capiva nemmeno.
L’unico svago che le era rimasto era quello di guardare dalla finestra il mondo che andava avanti senza di lei. La sua casa affacciava su un grande incrocio che ogni mattina si colorava del vociare della gente del quartiere. Proprio di fronte, sull’altro angolo della strada, c’era il mercato, con i suoi banconi verdi e qualsiasi cosa di cui si possa aver bisogno messa in bella mostra.
“Signora, pranzo pronto!”
“Aspetta, aspetta… ” accompagnò le parole ad un gesto della mano. Simile a quello che si fa quando si vuole scacciare qualche insetto fastidioso.
Non aveva ancora fame e questa era un’altra cosa che non capiva. Chi aveva deciso che dovesse mangiare a mezzogiorno?
Tornò a guardare dalla finestra, incurante dell’aria fredda di quella mattina di gennaio.
Ah, quanto avrebbe voluto scendere per conto suo e scegliere con cura delle belle mele, croccanti e succose. Oppure annusare i fiori al banco di Maria, sempre freschi e profumati. O perché no, scegliere i migliori carciofi del mercato, come quelli che piacevano al suo povero marito.
“Signora, pasta si fredda”
Fece finta di non sentirla. In fondo erano già tutti convinti che fosse sorda, ma c’era più il rischio che fossero loro a farle perdere l’udito con tutte le volte che le urlavano nelle orecchie. Continuò allora ad osservare il quartiere in cui era cresciuta, ma per il quale ormai era una perfetta sconosciuta. Non usciva quasi mai di casa, nonostante le sue figlie continuassero a ripeterle che la badante, quanto odiava quella parola, fosse lì a posta. Non volevano capire che lei non aveva nessuna intenzione di farsi vedere claudicante e malandata come lo era allora. Forse nel suo quartiere erano ormai poche le persone che potessero riconoscerla, ma aveva la sensazione che la stessa cosa non valesse per i luoghi. Le mura dei palazzi, i nasoni, il campanile della chiesa, erano sempre gli stessi. Voleva che la ricordassero quando da bambina giocava in strada senza correre il pericolo di essere investita da una macchina, voleva che la ricordassero quando era una giovane ragazza innamorata, o ancora, quando portava nel passeggino le sue bambine. Di certo non voleva che quei luoghi si ricordassero di lei come una vecchia zoppa e rimbambita. Sospirò, ripensando ai bei tempi andati, e in quel momento riconobbe di essere davvero vecchia. La badante continuava a chiamarla, ma per pura fortuna, riuscì a scorgere tra i mille visi che scorrevano velocemente davanti alla sua finestra, uno che sembrava avere la sua stessa andatura. Era un volto che come il suo era nato, cresciuto, invecchiato e probabilmente sarebbe appassito, in quel quartiere.
“Gebedia! Gebedia!” non le capitava spesso di vederlo, e ancora di meno di fare quattro chiacchiere con qualcuno senza rischiare di passare per una vecchia pazza.
“Signora, così perderete voce”
“Non t’impicciare, tu”
“Gebedia!”
“Pinuccia!” finalmente l’aveva sentita.
“Gebedia, caro, come stai?” Pinuccia si sporse leggermente in fuori dalla finestra, quel tanto che bastava per poter afferrare la mano del suo vecchio amico.
Se qualcuno li avesse osservati attentamente, avrebbero dato l’idea di essere la versione un po’attempata di Romeo e Giulietta. Ma nessuno sembrava prestare troppa attenzione a loro due.
“Perché non passi più spesso sotto la mia finestra?”
“Eh, Pinù, non esco più come una volta. Poi, da quando la mia compagna non c’è più… ”
“Ma di chi parli?” La moglie di Gebedia era morta anni addietro. Entrambi non erano stati abbastanza fortunati da avere i rispettivi compagni con loro anche nella vecchiaia.
“Della mia cagnolina!” Gebedia sembrava offeso che lei non se ne fosse ricordata o che non ne avesse notato l’assenza.
“Ah, è vero, anche quel gattaccio che viveva con me è morto. Ma non mi dispiace, se proprio devo dirla tutta. È colpa sua se sto chiusa qui dentro”
“Pinù, non ci credo che non puoi più camminare. E poi, che te ne fai allora di quell’adorabile signorina?”
“Vede signora, Gebedia mi apprezza”
“E vai da lui allora. Perché poi ti impicci dei fatti miei? Và, và, mangia… io ora arrivo”
“Pinù, una volta mica era così”
“Una volta non ero così vecchia!”
“Siamo tutti vecchi, Pinù. Ma tanto, non ci possiamo fare niente. Perché invece di startene rintanata tra quelle quattro mura non scendi a fare una passeggiata?”
“No, no, preferisco stare qui”
“Hai paura del mondo Pinù? Guarda che di vecchi ce ne sono fin troppi in giro. Che vuoi che ti succeda?”
“Lascia perdere, non puoi capire” invece Gebedia l’aveva capita benissimo. Il mondo che le piaceva tanto osservare da quella finestra, non era sicura che le sarebbe piaciuto altrettanto se davvero ne avesse fatto parte, anche se lo desiderava.
“Non è così male poi da quassù, guarda quel vigile per esempio. Ti dirò, mi diverte proprio vederlo fare multe. La gente ormai pensa di poter fare come gli pare, lasciano la macchina in doppia fila, passano con il rosso… ”
“Io invece a quello non lo posso proprio sopportare! Anzi, adesso gliene vado a dire quattro! Ciao Pinù, passerò più spesso sotto la tua finestra”
Pinuccia osservò il vecchio amico allontanarsi. Lo ammirava perché Gebedia sembrava ancora avere dentro di sé quello spirito combattivo che infiamma i giovani. Probabilmente qualcuno lo avrebbe considerato uno stupido, o peggio, un vecchio rompiscatole che non ha niente di meglio da fare, il che probabilmente era in parte vero, eppure Gebedia aveva conservato quello spirito che a lei invece mancava. Vedere quell’anziano signore alle prese con un vigile dispotico la intrattenne per un po’, ma ben presto si rese conto che restare affacciata alla finestra tutto quel tempo le stava causando qualche dolorino alla schiena e alla gamba. Si incamminò lentamente verso la cucina interrogandosi sulle parole del suo amico. Forse avevano ragione lui e le sue figlie. Avrebbe dovuto smetterla di farsi tanti problemi e accettare l’aiuto di cui innegabilmente aveva bisogno. Non era facile abituarsi all’idea di dover dipendere da qualcuno, ma in fondo, dipenderne dentro o fuori casa faceva davvero qualche differenza? Borbottando tra sé raggiunse la badante in cucina. Si sedette lentamente sulla sedia e aspettò che la donna le riempisse il piatto. La pasta era tiepida e insapore, ma una volta tanto si tenne il disappunto per lei, dal momento che era colpa sua e del suo perdere tempo affacciata a quella dannata finestra.
“Katia”
“Si, signora?”
“Domani ti insegno a fare la pasta con in carciofi, ma i carciofi me li vengo a scegliere io al mercato”.
Mauro di Andrea Pistone
Mauro vive da solo ormai da qualche anno. Si è svegliato tardi essendosi attardato la sera precedente alla televisione per seguire un dibattito politico, uno dei tanti, principalmente per noia. Il suo principale interesse difatti è il calcio, praticato con passione da giovane nelle serie dilettantistiche e proseguito con dedizione nell’età adulta come allenatore nelle scuole calcio. Nonostante l’età è ancora energico e in buona salute, a parte qualche acciacco fisico di poco conto e quella tosse causata dal recente vizio del fumo che periodicamente viene a fargli visita.
Dopo la colazione e la doccia, come suo solito, si veste da casa con i pantaloni di una tuta per star comodo. Sopra alla felpa di un’università americana regalatagli dal figlio anni addietro, indossata spesso anche per sentirsi ancora giovane, indossa una giacca a vento per coprirsi dal freddo giusto il tempo di una sigaretta. Affacciato alla finestra mentre fuma sta pensando se uscire e cosa fare in quanto non ha programmi per la giornata, come quasi ogni giorno.
La sua attenzione viene rapita da una signora ed un vigile che discutono dall’altra parte dell’incrocio verso il mercato rionale. Dato come è già vestito, è sufficiente infilarsi delle scarpe comode, da ginnastica naturalmente. Due acquisti al mercato, un salto al bar per parlare della Roma, una passeggiata al parco e pranzo alla sua trattoria preferita: le opzioni sono tante ma sono le solite. La possibilità di intromettersi in una discussione con un vigile urbano è irresistibile.
Giunto nelle prossimità dei due, il vigile ormai stava ultimando di scrivere la multa e sente la donna che continuava con poco successo a giustificarsi sostenendo di essersi fermata giusto pochi minuti per un acquisto rapido. La tentazione è troppo grande e alla fine Mauro non ha niente da perdere:
“Ao, nun se trattano così ‘e donne. E lascia perde ‘na vorta tanto, nun fa er cretino…”
La signora resta attonita, con la bocca mezza aperta, non sapendo cosa dire ma principalmente curiosa di sentire la risposta del vigile
“Ma come si permette, questa è offesa a pubblico ufficiale. Le insegno io ad intromettersi in questioni che non la riguardano, a non rispettare le forze dell’ordine. Mi dia le sue generalità.”
“Avoja, generalmente me state antipatici… e me sto a trattené pe’ rispetto de ’a signora. A te nun devo popo gnente. Signora, i miei omaggi.”
Mauro prosegue dritto senza voltarsi ignorando il resto delle parole che si infrangono contro le sue spalle. Non gli interessa, quell’attimo è stato sufficiente come distrazione dalla monotonia quotidiana. Un pizzico di adrenalina data dallo scambio breve ma per lui intenso. Ed ora al bar con una nuova storia da raccontare agli amici di sempre.
Gebedia contro Roma di Benedetta Munalli
Il signor Gebedia camminava verso la chiesa come se avesse il singhiozzo. Da qualche anno la gamba destra era precaria ma si rifiutava di portare il bastone. “È da vecchi.”
E tu che sei? Gli ripeteva la figlia mentre gli teneva la caviglia ferma per infilargli i calzini. Gli aveva dato un ultimatum: o il bastone o in giro senza di lei. “Sono un vecchio giovane. Te rimani pure a casa e annoiati.” Ora, quindi, Gebedia passeggiava come se avesse il singhiozzo. L’incrocio vicino al mercato era piuttosto trafficato a mezzogiorno e le persone correvano a farsi gli affari loro.
“Stupidi ignoranti!”sibilava a dentiera stretta e con muso lungo, ma sorrideva quando credeva di vedere una bella ragazza passargli accanto. Sebbene volesse arrivare il prima possibile alla messa, i pantaloni troppo larghi gli impedivano di affrettare il passo e lo costringevano a rallentare tra la folla, così Gebedia era forzato dal suo stesso corpo a collaborare con il contesto. Odiava il caos urbano, non ne era mai stato avvezzo e nemmeno dopo 60 anni di soggiorno romano si stava abituando al rumore e ai marciapiedi formicolanti. Da buon campagnolo, aveva promesso a se stesso, una volta vecchio, di tornare al paese. Ma gamba lo bloccava qui. Un ragazzino con uno zaino enorme lo sorpassò quasi a sfiorarlo, seguito da un ragazzo altissimo con le cuffie alle orecchie e una signora dai tacchi vertiginosi e due buste della spesa a farle da contrappeso. Gebedia dovette fermarsi per farli passare, sfrigolando blasfemie sui parenti dei malcapitati. Si trovò con la mano appoggiata al tronco robusto di un albero enorme. Prima si fermava solo per Betty, perché lei doveva odorare gli angoli e fare pipì lì vicino. A bisogno finito raschiava sull’asfalto bucato e Gebedia rideva.
“Gratta gratta che stai fresca” e poi aspettava che tornasse a zampettargli vicino. Un colpo di tosse lo fece scuotere. Odiava non avere la figlia che gli facesse tenere il passo durante la passeggiata fino alla chiesa. Forse la funzione era già iniziata, alla fine non era importante. Gebedia usciva tanto per fare qualcosa, per transitare, la destinazione era un pretesto. La stanchezza lo pizzicava spesso e la folla lo innervosiva, ma lui sapeva che nel trovarsi tra i giovani sentiva la vecchiaia lontana e la morte ancora di più. Il suo amore per Roma era contrastato da un equo ribrezzo per tutto ciò che ci abitava.
Il semaforo si fece giallo, si fermò ad aspettare. Dietro di lui, un bar universitario straripava di sorrisi e voglia di scoprire il futuro. Solo una ragazza sedeva malinconica davanti a una tazzina di caffè, osservava la strada ma chissà cosa stava pensando. Gebedia la fissò e gli dispiacque, così sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi. La ragazza tornò tra i mortali e si trovò un vecchio sdentato a sorriderle al semaforo. Rimase intontita e perplessa, senza capire se quel signore avesse problemi alla vista. Gebedia, per evitare fraintendimenti, alzò la mano e accennò un saluto. Lei sorrise forzata e si chinò per sollevare un enorme tomo, un muro tra lei e il vecchio maniaco. Così Geb, attraversando la strada senza voler pensare a quella reazione, sentì lo stridire di una Ferrari decappottabile che per poco non lo speronò. Geb cadde dallo spavento imprecando. Dal bolide inchiodato sulle strisce pedonali uscì un tipo indefinibile di età, ricco dalla testa ai piedi.
“Vecchio che ti butti in mezzo?” Povero di neuroni però, pensò Geb.
“Sto sulle strisce.” disse ancora tremante.
“Mi hai tagliato la strada, ringrazia che sei ancora vivo.” Il povero vecchietto si rimise in piedi fumando dalle orecchie e si mangiò le mani per non aver preso il bastone.
“Ma tu sei matto! Stavo attraversando col verde!”
“È rosso signò! Lo vede il rosso?!”
“Lo vedo il rosso cornuto di un cafone, ma prima era verde per me!” Intorno a loro si era creata la solita folla di curiosi, se Geb non fosse stato il soggetto d’interesse si sarebbe messo a gestire le scommesse.
“A si!? Signò mi prende per i fondelli? Non mi spaventa mica solo perché è vecchio eh…”
In quel momento Gebedia poteva infuriarsi e rischiare l’infarto oppure lasciar stare perché il mondo va come gli capita. E proprio perché è una sfera imprevedibile, Geb colse la palla al balzo quando vide un vigile avanzare a passo marziale verso di loro.
“Ora ti sistemo io cornutazzo.” I denti di Gebedia non si trattenevano mai. La guarda si sistemò in mezzo ai due litiganti come Gesù tra il bue e l’asinello, pronto a servire il paese meglio che poteva.
“Che succede qua?”
Geb partì in quarta.
“Il signorotto mi ha investito e insulta anche, pretende di aver ragione.”
Neanche il tempo di controbattere. L’uomo ferrari si sentì colpito in mezzo agli occhi da dardi imbevuti di benzina e infuocati dall’accendino del demonio. Il vigile giudicava, e quando l’uomo lo vide sfilare un nuovo foglio dal suo taccuino genera – multe sentì i soldi sciogliersi dal suo portafoglio. Gebedia si tratteneva dallo sghignazzare, quando il vigile staccò per un attimo gli occhi dal colpevole e li mise su di lui.
“Signore…ma io la conosco.”
Dovete sapere che il vecchietto aveva un diario dove annotava le sue giornate, serviva per tenere attivo il cervello gli diceva la figlia. Non metteva nessuna data: divideva gli eventi in “giorni brutti” e “giorni belli”, e poi c’era una sezione speciale chiamata “le giornate di merda”. Nell’istante in cui riconobbe il vigile decise di prendere le pagine vuote delle prime due categorie e di aggiungerle alla terza per raccontare questa storia.
“Lei ha maltrattato il mio cane.”
L’uomo-ferrari aveva in faccia scolpita di perplessità.
“No signore, io le ho chiesto calorosamente di non far fare bisogni al suo cane sulla mia vettura.”
“E mi ha fatto la multa.”
“Ho fatto la multa, esatto.”
Un ragazzino della prima fila chiese spiegazioni più dettagliate. “Odia gli animali e mi ha fatto anche pagare.”
Dalla folla un mormorio indignato fece vacillare la guardia che liquidò il pubblico con la frase che tutti stavano aspettando.
“Va bene qua, lasciate libero il passo.”
Man a mano che la folla veniva smaltita e riassorbita nel ritmo frenetico di mezzogiorno, i tre si misero a lato della strada, davanti al bar universitario, continuando a scrutarsi senza fiducia.
“Insomma il suo cane ha pisciato sulla macchina del signore?” chiese l’uomo ferrari ciondolando disinvolto davanti a Gebedia con un ghigno irrisorio. Si stava prospettando una lotta a tre, tutti contro tutti, in cui bastava creare un’alleanza col più forte per cantar vittoria.
“Il mio cane fa quello che vuole, soprattutto se ha la vescica piena.”
“Certo, l’importante è che il padrone risponda delle sue azioni.”
Il vigile rimaneva con taccuino in mano e fissava Geb con glaciale superiorità.
“Insomma questo pagliaccio mi investe e devo stare a giustificare il mio cane?”
“Intanto non l’ho investita, anzi penso di non averla neanche sfiorata.” l’uomo ferrari indicava i fanali intatti.
“Vede agente? Nessun bozzo, questo si è solo spaventato vedendomi arrivare.”
Il vigile si mise ad osservare la macchina. “Certo è un bel modello…”.
Gebedia non credeva ai suoi occhi. Era vecchio e zoppo, poteva farsi male o peggio eppure i due agivano spensierati escludendolo a priori dal contesto. Era quasi surreale.
Mentre discutevano della dinamica, Geb si fece rispettare.
“Giovanotto, lei mi ha quasi investito sulle strisce e non sono ancora così rincoglionito da buttarmi in mezzo alla strada.”
“Signore, il ragazzo ha detto che lei è passato con il rosso. Si ricorda?”
“No! E stavo sulle strisce! Ed è un miracolo che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi! Io ho 74 anni!”
Il vigile scosse le spalle, annuendo con indifferenza.
“Signore sono spiacente dell’accaduto, siamo sicuri che il ragazzo le deve delle scuse ma non può incolparlo di una sua distrazione. Vedo che è perseverante in questo tipo di condotta.”
“Ancora pensa al cane?…Senta, io incolpo quel pazzo di avermi quasi ammazzato, si rende conto?! Ma da che parte sta?”
L’uomo ferrari intanto, a braccia conserte, si godeva la vista di una discussione impari, seduto sul cruscotto. Sfoggiava anche un paio di occhiali da sole che irritavano Gebedia fino al midollo.
Il vigile alzò il tono della voce.
“Sto dalla parte della giustizia, e penso che lei non sia molto sincero, dato il suo comportamento in precedenza.”
Era buffo. Geb non avrebbe mai creduto che una stupida banalità potesse causagli guai. Non avrebbe mai creduto che le persone potessero legarsi al dito proprio le banalità. Adesso si sentiva da solo a sostenere la sua verità e quasi vacillò nel confermarla quando ripensò alle imperfezioni, alle carenze e alle superficialità che lui stesso aveva commesso in passato. Gli era capitato di essere stato l’uomo ferrari in una situazione, il vigile in un’altra, il cane in un tempo lontano 60 anni, quando era sua madre a farne le veci. Ma ora che era vecchio e stanco ed era in gioco la difesa della sua vita, quando davvero poteva essere sicuro di meritarsi di stare dalla parte della ragione, il mondo stava passando indifferente al suo fianco, ignorandolo. All’improvviso si sentì spogliato di tutto, insicuro persino di come si chiamasse. E forse…era vero che era passato col rosso. Possibile anche che fosse caduto per lo spavento. Credibile che, alla fine, era davvero un vecchio rincoglionito che doveva starsene a casa senza combinare guai e doveva chiedere scusa fino a quando non sarebbe crepato. Geb iniziò a non capire più nulla di quello che il vigile e l’uomo ferrari si stavano dicendo e la vista gli si stava appannando. In lui l’uomo che la vita aveva creato si stava rimpicciolendo. Una voce femminile irruppe nella scena. Il vigile si voltò permettendo a una ragazza di entrare nel cerchio. Era familiare a Geb, cercò di ricordarla mentre tentava di concentrarsi sul dialogo.
“Il signore è passato con il giallo, l’ho visto io.” Geb la vide indicarlo e lui la riconobbe: la ragazza del bar lo stava aiutando. Pian pino Gebedia tornò in se e ascoltò con attenzione.
Dopo una veloce ricostruzione del fatto, la discussione si prolungò ancora finchè Geb, senza aver detto più nulla da quando la ragazza era arrivata, limitandosi a cenni con la testa e grugniti per rispondere alle stesse domande, venne supportato dalla testimonianza e ritenuto parte lesa. L’uomo ferrari se ne andò sgommando e con un muso lungo quanto un risarcimento a quattro cifre, mentre il vigile, sorriso forzato e parole poco sincere, si congedò augurando il meglio al vecchietto ma invitandolo a far attenzione, che Geb tradusse come un avvisaglia bella e buona. Rimasti da soli, Geb non sapeva bene come comportarsi. Stava per mettere mano al portafogli, ma poi gli sembrò un’offesa, voleva offrirle un caffè, ma non sapeva come la cosa sarebbe suonata. Era da molto tempo che non si sentiva così in difficoltà con una donna.
“Signorina, non so che dirle se non grazie.”
La ragazza annuì infilandosi lo zaino sulle spalle.
“Non deve. Anzi, mi dispiace essere intervenuta molto dopo. Me ne sono stata lì seduta a decidere che fare…mentre io vedevo che lei era in difficoltà.”
Geb credeva di sapere perché provava rimorso. Provò a sfoderare qualche perla di saggezza.
“Le pare, mica è facile intervenire…ma lei lo ha fatto. Deve essere contenta di se…della persona che è insomma.”
Si stava impicciando con le parole, avrebbe voluto dire tanto altro, tutto quello che poteva servire a una giovane per soffrire un po’ di meno nella vita. Ma lui stesso aveva avuto la prova che non poteva esistere una giornata senza problemi, che presto o tardi sarebbero arrivati a pestarti di botte e che questo la giovane già lo sapeva. Quindi, non disse più nulla. Si offrì di accompagnarla fino alla metropolitana, almeno. Prima di andare via, la ragazzetta gli chiese come mai al bar la stava salutando. “Mi sembrava fosse triste, volevo metterle allegria ma penso mi abbia preso per matto.” Lei sorrise annuendo e Geb rivide la giovane sagoma di una donna nei suoi movimenti. Fu colpito da un calore già provato, così lontano nel passato che ormai gli sembrava perso. “Tu mi ricordi Adelina. “La ragazza non rispose, lo salutò e sparì tra i gradini. Non chiese al vecchietto chi Adelina potesse essere. Non ce n’era bisogno. Sapeva solo che, dal il guizzo languido nei suoi occhi, non serviva una scienza per capire quanto lei gli mancasse.
“Bakemono Lab Magazine” è un progetto editoriale dedicato al mondo della scrittura e all’universo Bakemono. Un’occasione per far conoscere il nostro catalogo e dare un’opportunità ai giovani autori esordienti che vogliono cimentarsi nella scrittura di un racconto. Ogni numero del magazine sarà dedicato a un autore classico. Selezioneremo tre racconti inediti e tre illustrazioni inedite per numero che devono avere attinenza con i racconti o le tematiche proposte dalla redazione.
Valuteremo racconti inediti di lunghezza massima di 2.000 parole. Ogni autore potrà partecipare con un solo scritto. Le opere dovranno essere inviate in formato .doc o .odt all’indirizzo e-mail: progetti@bakemonolab.com [oggetto della mail: racconto/illustrazione magazine]. La selezione si concluderà il 31 dicembre 2019. Gli autori dovranno inviare insieme al racconto una biografia di massimo dieci righe, una dichiarazione in cui attestano di detenere i diritti di paternità dell’opera e una liberatoria in cui autorizzano la Bakemono Lab a stampare e a pubblicare il racconto/l’illustrazione a titolo gratuito. I racconti selezionati verranno sottoposti a editing e correzione bozze a cura della Bakemono Lab. Il magazine sarà distribuito gratuitamente nelle fiere.
IL SECONDO NUMERO DEL MAGAZINE SARÀ DEDICATO A HERMAN MELVILLE
I racconti e le illustrazioni dovranno essere attinenti con una o più delle seguenti tracce:
- balene e creature marine
- sfide impossibili
- viaggi oltreoceano
Il primo laboratorio di scrittura creativa è terminato. Sono stati tre giorni davvero intensi!
Abbiamo parlato di autori e romanzi indimenticabili, di stili narrativi e registri linguistici diversi, di editing e revisione.
I racconti creati dai ragazzi durante questa mini maratona di scrittura compariranno nel primo numero del nostro magazine che uscirà a ottobre e sarà dedicato alla figura di Edgar Allan Poe.
Sabato abbiamo sperimentato il mini lab dedicato ai piccoli scrittori in erba, un’esperienza divertente ad alto tasso di creatività.
Il laboratorio torna a settembre (date da definire). Se volete iscrivervi e/o chiedere informazioni potete mandare una email a: info@bakemonolab.com.
IL PROGETTO
“Bakemono Lab Magazine” è un progetto editoriale dedicato al mondo della scrittura e all’universo Bakemono. Un’occasione per far conoscere il nostro catalogo e dare un’opportunità ai giovani autori esordienti che vogliono cimentarsi nella scrittura di un racconto. Ogni numero del magazine sarà dedicato a un autore classico dell’horror e del fantastico. Selezioneremo tre racconti inediti per numero che devono avere attinenza con il racconto proposto dalla redazione.
COME PARTECIPARE
Valuteremo racconti inediti di lunghezza massima di 2.000 parole. Ogni autore potrà partecipare con un solo scritto. Le opere dovranno essere inviate in formato .doc o .odt all’indirizzo e-mail: progetti@bakemonolab.com [oggetto della mail: racconto magazine]. La selezione si concluderà il 15 marzo 2019. Gli autori dovranno inviare insieme al racconto una biografia di massimo dieci righe, una dichiarazione in cui attestano di detenere i diritti di paternità dell’opera e una liberatoria in cui autorizzano la Bakemono Lab a stampare e a pubblicare il racconto a titolo gratuito. Gli autori selezionati riceveranno tre copie del magazine e l’autore del racconto giudicato migliore dalla nostra redazione riceverà una proposta di collaborazione remunerata. I racconti selezionati verranno sottoposti a editing e correzione bozze a cura della Bakemono Lab. Il magazine sarà distribuito nelle fiere e sarà ordinabile sul sito della casa editrice.
IL RACCONTO SELEZIONATO PER IL PRIMO NUMERO DEL MAGAZINE : LA CADUTA DELLA CASA USHER DI EDGAR ALLAN POE
I racconti dovranno essere attinenti con una o più delle seguenti tracce:
- case inquietanti
- legami familiari morbosi
- sepoltura
- ambientazione gotica