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Il lapis del falegname – Manuel Rivas (Feltrinelli )
Ci sono libri che ti lasciano una strana sensazione addosso. Per giorni ti chiedi se sia riuscito a comprenderli fino in fondo e alla domanda “ti è piaciuto?” ti trovi spiazzato, prendi tempo o rispondi “sì” oppure “no” sempre accompagnati da un “però…” con relativi punti di sospensione. Questo mi è accaduto leggendo Il lapis del falegname. Il lapis rosso è quello che Herbal si ritrova tra le mani mentre, in un bordello della Galizia, racconta a una ragazza del locale la sua storia, ambientata in Spagna durante la guerra civile. Arruolato nell’esercito di Franco, non può fare a meno di odiare quello che i repubblicani rappresentano. Soprattutto uno, il dottor Daniel da Barca. Colto, sicuro di sé e dei suoi ideali, ammirato da tanti (specie dalle donne), rappresenta tutto quello che Herbal non è e non sarà mai. Un’ossessione amplificata dalla fidanzata del dottore, Marisa Mallo, donna bellissima che il narratore conosce fin da quando era giovane e se ne era invaghito. Corroso dall’invidia per Daniel, lo fa arrestare e cerca più volte di ucciderlo. Non riuscendo nel suo intento, diventa praticamente la sua guardia personale, facendosi trasferire nel suo carcere per essergli sempre vicino.
Questo strano sentimento di odio, ossessione ma anche ammirazione e rispetto verso l’oppositore del regime si fa via via più complesso e forse migliora la figura del protagonista/narratore, come nell’episodio della prima notte di nozze, nel quale traspare un briciolo di umanità che, a mio parere, non sarà sufficiente per riscattarlo. Sono troppe le atrocità di cui è complice e testimone, delle quali, nel corso del racconto, non sembra rammaricarsi. Ulteriore segno della lucida follia di Herbal ci viene data da due personaggi che si alternano nella sua mente. Da un lato, il pittore, proprietario del lapis che lo stesso carceriere aveva ucciso, rappresentazione del rimorso e di quel poco di umanità che dimostra nel romanzo; l’Uomo di Ferro, invece è l’espressione efferata e cruda del soldato fascista. Una storia ricca di mille sfaccettature che merita di essere letta, interpretata e sulla quale intavolare più di una discussione.
Daniele Forcella
Nel volume illustrato Note di Viola hai dato voce alle emozioni della protagonista scrivendo le parti musicali che lei esegue con vari strumenti. Ci parli del processo creativo che accompagna i tuoi progetti?
Ho seguito il percorso di tutte le mie “creazioni” o almeno della maggior parte di esse. Nasce tutto da un input, spesso inaspettato, visivo, o più ampiamente sensoriale o emotivo, una curiosità, un colore, una forma, una parola, una sensazione, il ventaglio è davvero ampio! Qualcosa cattura la mia attenzione e si ferma silenziosamente dentro di me. La magia, la definisco in tal modo perché ancora non ne capisco esattamente la fonte, fa sì che l’elemento “stimolante” si trasformi in suono, fosse anche una piccola sequenza di note. Le lascio depositare e poi dopo tempo, giorni, a volte settimane, ci ritorno, le riprendo, aggiungendo e ancora aggiungendo e infine togliendo. La cura spesso la individuo soprattutto nel “togliere”. Come nella creazione/trasformazione da un marmo, un legno.
L’album di Alice Pelle che hai amato di più, quello che racchiude più realizzazioni.
Ottima domanda. Vorrei tanto tediare con righe e righe e parole… ma non è questo il luogo! Ho fatto due dischi sinora, Camera, autoprodotto, e Little Dream per la Suono Records, più il terzo “disco che non voleva mai uscire” ed il quarto “disco che aspettava che uscisse il terzo”. Il terzo disco è pressocché finito ma ha avuto una storia a dir poco travagliata, il quarto è a buon punto. Continuo a scrivere a volte tanto, a volte meno avendo difficoltà a collocare la forma album ora. Guardo e tocco i vinili quasi lascivamente e penso a come sia difficile veicolare e proporre più canzoni che vogliano raccontare qualcosa, non necessariamente nella forma “concept”, fosse anche solo percorrendo quel filo emotivo o sonoro che ti faceva ascoltare un LP o un Cd dall’inizio alla fine. Quindi la risposta definitiva è.. ho amato tutti gli album che ho creato, editi e non editi, malgrado i cambiamenti strutturali della forma disco!
Un artista con cui vorresti collaborare?
Ehhh… tanti. Ma tanti tanti. Il mio sogno da sempre era di poter lavorare con George Martin, gli scrissi anche qualche anno fa, ma la mail segnalata sul suo sito non faceva altro che tornare indietro! Ma sono dell’opinione che conoscere i propri “eroi” possa anche essere deludente per certi versi ed forse è meglio lasciarli lì dove sono, nell’immaginario perfetto dove non vi sono aspettative. Amo collaborare e soprattutto in maniera trasversale, senza avere il limite del mondo “d’appartenenza” e amo imparare, scoprire, confrontarmi. Del resto anche la nostra collaborazione è nata così!
Un romanzo che hai amato particolarmente.
È difficile. Molti. Ma andando a stringere c’è un solo libro che ho letto più volte: 1984.
Che musica stai suonando in questo momento?
Mi sto ricimentando a suonare il terzo movimento della Sonata conosciuta come Chiaro di Luna di Beethoven, si sentiva spesso suonata da Schroeder nei fumetti animati dei Peanuts. Ma non ho Lucy che mi guarda con gli occhi a cuore facendo voli fantasiosi sul futuro assieme.
La playlist del weekend: non potevamo non chiederlo a te! Tre consigli musicali ai lettori…
Per iniziare propongo un duo di fanciulle le Kitchen Machine con La Sposa, un brano veramente toccante che racconta in modo apparentemente delicato e chiaro qualcosa di orribile.
Proseguo con un artista che ho conosciuto da poco, Mirko Dettori, al suo primo lavoro originale, davvero ben fatto e soprattutto spensierato e godibile! L’unica traccia che ho trovato per l’ascolto sul web lo vede in duo con Her : Il giardino delle torture.
Per il brano che conclude idealmente il weekend ho lungamente tentennato tra Hiromi Uehara e Aziza Mustafa Zadeh, entrambe meravigliose musiciste, ma infine ho ceduto ad una mia passione storica, i Porcupine Tree, con un brano che racchiude tanto del loro percorso musicale, Blackest eyes.
– Varla –
Continuiamo a parlare di musica e film con Pretty in pink (Bella in rosa), regia di Howard Deutch.
Andie Walsh (Molly Ringwald) lavora in un negozio di dischi e vive con il padre depresso che non si è più rifatto una vita dopo la separazione dalla moglie. Grazie a una borsa di studio, Andy frequenta una facoltosa scuola e lì si innamora di Blane, un ragazzo ricco e apparentemente lontano anni luce dalla realtà di Andie.
Il pezzo degli Psychedelic Furs, “Pretty in pink”, dà il titolo a questa pellicola culto dell’86, la colonna sonora è composta da brani indimenticabili.
Buon ascolto!
- If You Leave – Orchestral Manoeuvres in the Dark
- Left of Center – Suzanne Vega/Joe Jackson
- Get to Know Ya – Jesse Johnson
- Do Wot You Do – INXS
- Pretty in Pink – The Psychedelic Furs
- Thieves Like Us – New Order
- Round, Round – Belouis Some
- Wouldn’t It Be Good – Danny Hutton Hitters
- Bring On the Dancing Horses – Echo & the Bunnymen
- Please, Please, Please Let Me Get What I Want – The Smiths
Vi ricordiamo che Black Philip è attivo su Fb e su Instagram! Follow the goat
Nove strati di buio – Echos edizioni
Nove strati di buio è un’antologia di storie nere, selezionate da Laura Sestri, che inaugura la collana Abissi di Echos Edizioni. Non si parla però di zombie, vampiri, fantasmi o mostri di altro genere. L’orrore chiuso dentro queste pagine può avere diverse chiavi di lettura. Personalmente, il comune denominatore che ho avuto modo di percepire, è qualcosa di molto tangibile e agghiacciante: la follia allo stato puro. Un filo rosso che unisce queste storie, si presenta sotto varie forme e colpisce persone di ogni genere. Da un giovane precario che cerca con fatica di arrivare alla fine del mese, a un avvocato che si è sistemato, suo malgrado, con la figlia di un uomo potente. Per Juri Casati, non risparmia neanche due ragazzini che prendono di mira un loro coetaneo e decidono di andare oltre il bullismo per regalare a lui una ben congegnata morte e a loro stessi un’esperienza che li perseguiterà a vita. Se la follia collega queste storie, la morte ne è l’assoluta protagonista, come anche dichiarato nella prefazione. Ogni autore ne presenta una propria visione: la morte come evento a sé, come conseguenza di una pazzia straripante o come paura. Paura di ciò che verrà dopo, per la precisione. Il protagonista di Credevo di essere morto la vivrà in prima persona, descrivendone ogni istante e tutte le sensazioni che la accompagnano, fino alla distruzione del proprio cadavere; Ottavio Taranto ce la descrive iconograficamente, inquietante misto di illusioni e inganni. Giovanni Canadè, invece, rivela come il dubbio che l’aldilà non esista possa essere più angosciante dello stesso trapasso. E poi c’è chi cerca di sfuggire alla morte e alla solitudine che essa comporta, come accade nella breve ma intensa storia di Olivia Bazar Casa di ringhiera. Ambientato tra i Navigli di Milano, una ragazza ci descrive la sua “adorabile” dirimpettaia. L’errore di un postino sbadato la porterà a scoprire il terribile segreto della donna, in un racconto in cui morte e follia sono sapientemente intrecciati.
Daniele Forcella